Il Museo Nero di “Black Mirror”: immagine, conservazione e crisi della memoria
DOI:
https://doi.org/10.6092/issn.2531-9876/10250Parole chiave:
museo, ipertecnologia, crimine, memoriaAbstract
L’ultimo degli episodi (il sesto della quarta stagione) finora trasmessi di Black Mirror, la fortunata serie pubblicata da Netflix e in onda dal 2011, è probabilmente il nodo verso cui convergono i molteplici temi di questa antologia. In effetti, il noir nella sua accezione più ampia connota tutte le puntate della raccolta in una visione cupa, distopica sì, ma non improbabile di ciò che potrebbe essere un futuro ipertecnologico non troppo lontano. Forse non è un caso che le singole storie, ciascuna autonoma eppure legata idealmente alle altre, si ritrovino alla fine in uno strano museo, situato nel più remoto angolo di un deserto e presso un’isolata – e apparentemente abbandonata – stazione di servizio. Quel che è interessante, a leggere tra le righe (e perché no, a vedere attraverso le vetrine di quella esposizione) è il fatto che la proiezione verso cui mirano gli episodi non riguarda solo il rapporto uomo-tecnologia, in un tempo in cui persino le emozioni saranno controllate da una applicazione da smartphone; ma anche – in questo caso – il futuro dell’idea di museo e delle logiche della conservazione. Le tecnologie – questo sembra il deloi oti della sequenza narrativa – di per sé non sono né buone, né malvagie: è l’uso che se ne fa a determinarne la corruzione, e dunque gli effetti distruttivi sulla società. Nel caso di Black Museum, questo deterioramento ha un nome e corrisponde al direttore dell’esposizione permanente, Rolo Haynes. Un po’ anfitrione, un po’ direttore, un po’ di più affarista senza scrupoli, Haynes ha dovuto dirottare il fallimento della sua vita precedente sulla gestione di una specie di sacrario degli orrori: un museo che – similmente ai Black Museums delle più celebri polizie del mondo – raccoglie i corpi del reato di crimini agghiaccianti.
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