Fotografia come autobiografia. Le narrazioni visuali di Jo Spence tra arte, attivismo e terapia
DOI:
https://doi.org/10.6092/issn.2531-9876/16100Abstract
L’attenzione al corpo della donna nell’arte contemporanea, se da un lato è esternazione di libertà (o almeno ne è una richiesta o pretesa) dall’altro ci mette di fronte al ‘biopotere’ teorizzato da Michel Foucault e ci restituisce un corpo dominato, sfruttato e consumato. Questo processo può restare celato di fronte a un corpo perfetto ma ciò non è possibile se il corpo è problematico, malato, subisce ferite e lacerazioni, invecchia. Come ha lucidamente osservato Susan Sontag in Malattia come metafora e come è stato molto recentemente ribadito in Non morire dal Premio Pulizer Anne Boyer, l’annientamento del corpo della donna come conseguenza del cancro si accompagna al suo trattamento come entità impersonale. In questo ambito il ruolo della fotografia documentaristica, nella sua forma più critica, è fondamentale per scardinare i meccanismi di potere e cambiare la fruizione degli effetti della malattia sul corpo delle donne. È ciò che ha fatto attraverso un accurato processo di decostruzione la fotografa e scrittrice britannica Jo Spence. L’articolo intende analizzare il suo lavoro, dalla serie Beyond the Family Album, realizzata tra il 1978 e il 1979, in cui ricostruisce eventi traumatici solitamente lasciati fuori dai ricordi di famiglia, fino ai lavori degli anni Ottanta dedicati a sovvertire coraggiosamente la nozione di un’ideale corporeità femminile come in Putting Myself in The Picture: a Political, Personal and Photographic Autobiography, realizzato nel 1986.
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