Le carni chiare dei pensieri e dei sogni
DOI:
https://doi.org/10.6092/issn.2531-9876/8384Parole chiave:
Fotogenia, Cinema, Dispositivo, Automatismo, Continuità/discontinuitàAbstract
Jean Epstein affida al film Le tempestaire (1947) la propria riflessione sulla capacità del cinema di modulare il puro vissuto e insieme l’esperienza del soggetto. Epstein legava la forza visionaria del cinema alla fotogenia che irradia dall’incontro tra il mondo e la macchina da presa; una potenza specifica del cinema che si libera proprio grazie all’occhio meccanico della cinepresa, la quale – fissando oggetti, volti, luoghi – fa «apparire una verità nuova e impietosa delle cose». La macchina da presa dissolve così l’immagine unitaria del sé e del mondo, dispersi ora nelle infinite pieghe di uno sguardo disumano e impersonale che frantuma l’unità del reale in una moltitudine di immagini. La fotogenia, tuttavia, non definisce una soglia ma piuttosto un limite paradossale, una piega dello sguardo e del mondo, un punto di intensificazione che evidenzia una continuità nella discontinuità. Essa non rivela il fondo della realtà, ma vede tutta un’altra realtà, mostra quello che è stato e che potrebbe essere, la ragione e la follia, «le carni chiare dei pensieri e dei sogni». La fotogenia esibisce la resistenza della materia stessa a lasciarsi ridurre a qualsiasi codice semiotico: una forza aleatoria che non è mai oggetto di un sapere quanto piuttosto «l’«avvento sfuggente di una grazia in un volto in divenire». La materia si libera così da una grammatica dell’espressione, sospende la proliferazione della comunicazione e restituisce il discorso stesso al proprio limite interno: un luogo «intensivo dove il tempo si arresta o si dà a vedere in se stesso, senza necessariamente volgersi verso il narrativo o il semiotico».
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